Calvino e l'architettura nel centenario della nascita

Ricade quest'anno il centenario della nascita di Italo Calvino. Alcuni nell'essere qui si chiederanno cosa c'entri questo letterato con una piattaforma di ingegneri ed architettura. È presto detto: molta della produzione di Italo Calvino è strettamente legata all'architettura ed infatti "i calvinisti" sono spesso anche astronomi, matematici e, appunto, architetti. Questo rende l’influenza di Calvino a trent’anni dopo la morte dispersiva, indiretta, sottile; la presenza calviniana sembra riecheggiare la sua figura autoriale, di assente-presente allo stesso tempo.

Sono tanti gli architetti che hanno cercato di replicare tante delle sue opere, soprattutto Le città invisibiliLezioni Americane che risulta, però meno architettonico del primo. Ne Le città invisibili chi guarda trova nello sguardo aperto, la griglia di possibilità e potenzialità che il libro di Calvino offre ed è questo che nel corso degli anni ha spinto alla nascita di una molteplicità di progetti. Oggi più che mai le città calviniane sembrano offire un’apertura utopistica nei confronti di stereotipati modernismi, un possibile progetto urbano per metropoli stagnanti, tant'è che il concetto di "invisibilità" ha conquistato piena cittadinanza nei manuali e corsi di architettura.

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Non si tratta di città campate in aria, ma ben ancorate a un passato che deve servire da modello per il futuro: non a caso è proprio Venezia, città-anacronistica protetta e minacciata allo stesso tempo dalla sua laguna, il punto di riferimento esplicito e implicito delle città calviniane. Venezia è la città archetipo, non chiusa nella sua conchiglia, ma esempio aperto di spazio urbano da custodire, ripetere, copiare. Tuttavia, quelle di Calvino non sono città concrete, benché si tenda a vederlo spesso così. Calvino lascia molti spazi bianchi, molto spazio all'immaginazione ed è proprio la scarsa visibilità delle città di Calvino che garantisce il loro successo, la loro produttivitità multiforme nei cervelli di artisti e urbanisti.

Calvino riteneva Le città un passaggio centrale del suo lavoro: “Il simbolo più complesso, che mi ha dato le maggiori possibilità di esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esigenze umane”. Nel rappresentare utopia, sogno e incubo, desiderio e bellezza e infinite altre suggestioni spesso contrapposte, Le città furono per Calvino quasi un “diario della sua navigazione nel labirinto della contemporaneità”. In Calvino la descrizione di ambienti supera la necessità di contestualizzazione, al punto di trasformare paesaggi e città da fondali in elementi centrali di scrittura e protagonisti del testo, e in questo si configurano anche l’adozione di un linguaggio e di forme specifiche dell’autore diventando una sorta di “paesaggista involontario”.

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Un altro testo importante per "l'architettura calviniana" e conferma la sua impronta di paesaggista è Il barone rampante, dove il bosco è un luogo sociale sul quale rifondare la società, avvicinandoci molto ai discorsi attuali sulla urban forestry. Il barone Cosimo cerca la libertà trascorrendo una vita in tutto omologa a quella di un paesaggista, che inizia con la conoscenza della natura per arrivare a trasformarla e pianificarla, fino a costruire una visione politica sulla città-bosco. Alla descrizione botanica profonda, si aggiuge la narrazione di uno dei più importanti passaggi della storia del giardino, dalle forme neoclassiche a quelle naturalistiche dei parchi anglosassoni. 

Calvino si è ripetutamente espresso in termini di “composizione di paesaggio”, esplicitando così intenzionalità creative. I passaggi dove questo discorso si fa più forte sono le descrizioni dei giardini di Kyoto (Collezioni di sabbia, 1984) e in Dall’opaco  (postumo): nei primi identifica i principi organizzativi dello spazio, del movimento e della percezione, connesse a una origine compositiva di reciprocità, che lega rappresentazione, espressione poetica e paesaggio. Nel secondo Calvino invece si pone alla sommità di paesaggi terrazzati verso il mare e si domanda “che forma ha il mondo” o “quante dimensioni ha lo spazio” rispondendo con una descrizione quasi scientifica dove l’immagine è una composizione di terrazze su terrazze, di linee spezzate e di elementi discontinui, di tratti di anomalia rispetto a quelli di ordine, che compongono un grande teatro il cui fondale è l’orizzonte.

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Infine, la verticalità, espressa soprattutto ne Le città invisibili. Il romanzo di Calvino è composto da nove capitoli, ciascuno dei quali si apre e si chiude con un dialogo fra Marco Polo e l'imperatore dei Tartari Kublai Khan che interroga l'esploratore sulle città del suo immenso impero. Ciascun capitolo contiene cinque descrizioni delle città visitate da Marco Polo, tranne il primo e l'ultimo capitolo che contengono dieci descrizioni per un totale di cinquantacinque città. Per la maggior parte di essere, Calvino si è ispirato a città dove ha vissuto o che ha visitato come la già citata Venezia "città acquatica". Nelle Corrispondenze dagli Stati Uniti del 1960-1961 loda l’aspetto estetico dell’architettura di New York City, con «le forme moderne e bellissime delle nuove costruzioni in acciaio e vetro di Madison Avenue». Questa città rimarrà una delle sue città preferite proprio per la verticalità del suo stile architettonico, il suo slancio, la combinazione fra esattezza e fantasia. Come a Genova, anche nei dintorni delle città americane, Calvino scopre la bellezza quasi astratta delle stratificate costruzioni autostradali. Infatti per l'autore, la stratificazione verticale è rappresentata anche dalle costruzioni autostradali di ponti, viadotti, trafori. All’insieme architettonico medievale e rinascimentale della Piazza è stata aggiunta una nuova dimensione verticale, dovuta alla rete di autostrade. È una sovrastruttura che per Calvino ha un suo fascino.

Ne Le città invisibili si delinea chiaramente una preferenza per le dimensioni verticali su quelle orizzontali sin dalle prime sezioni del libro. Scrive di città meravigliose, con un’architettura che sembra derivare da ambienti mediterranei e che, nonostante alcune bizzarre stonature, connota certi stili medievali e rinascimentali: Diomira, città con sessanta cupole d’argento, Dorotea, in cui quattro torri d’alluminio e settecento fumaioli si alzano verso il cielo, Zaira dagli alti bastioni le cui vie sono fatte a scala. Sanremo traspare in Valdrada, città costruita verso l’alto con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra, che si riflette direttamente nello specchio del lago. Venezia si riconosce sia in Smeraldina "la città acquatica", nella quale «un reticolo di canali e [...] strade si sovrappongono e s’intersecano» e «la rete dei passaggi non è disposta su un solo strato, ma segue un saliscendi di scalette, ballatoi, ponti a schiena d’asino, vie pensili», che in Fillide, dove la verticalità è data dalla sovrapposizione di ponti e di finestre. La verticalità si combina a volte con la leggerezza, come in alcune delle "città sottili", Isaura ed Armilla che consistono d’impianti idraulici d’ogni genere, mentre altre volte rappresenta il declino, come nella precaria Ottavia, citta ragnatela o a Bauci, costruita sopra le nuvole che scruta la terra dall'alto. Man mano la verticalità si capovolge, trasformandosi in una verticalità che tende verso il basso rappresentando l’inversione dei valori.

In conclusione, per Calvino, l’architettura è uno dei mezzi di cui dispone l’uomo per dare «forma» al mondo. In uno scritto per L’osservatorio del signor Palomar del 1975 cita un brano dei Dialoghi romani di Francisco de Holanda, in cui l’artista portoghese fa parlare Michelangelo: «vi accorgerete che ognuno, senza saperlo, sta dipingendo questo mondo, sia nel creare e produrre nuove forme e figure [...], sia nel costruire e occupare lo spazio con edifici e case dipinte». Questo vale certamente per città verticali come Sanremo o San Francisco e per certe costruzioni stradali che disegnano o scrivono il paesaggio, ma anche per tutte quelle che non fanno che corrodere il mondo. Nelle visioni architettoniche di Calvino questi due estremi sono ugualmente presenti: da un lato la consapevolezza di vivere una condizione distopica minacciosa e ingombrante, dall’altro una visione utopistica che, seppure precaria e fragile, non si lascia mai del tutto cancellare.

 

FONTI
https://www.doppiozero.com/citare-calvino-le-citta-invisibili-e-gli-architetti
https://www.architettiroma.it/ar-web/argomenti/paesaggio/tra-reale-e-immaginario-paesaggi-e-citta-in-italo-calvino-di-fabio-di-carlo/
https://matteopericoli.com/2018/02/02/su-le-citta-invisibili-di-calvino/
https://journals.openedition.org/italies/4471?lang=it 

 

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